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Morti ideologiche

Morti ideologiche

I tre operai morti a Torino si aggiungono alle tante vittime di una drammatica contabilità quotidiana. Due di loro avevano poco più di cinquanta anni, l’altro appena venti. Molte le voci, sindacali e politiche, che si sono levate a denunciare e condannare l’ennesimo lutto sul lavoro. Il sottosegretario al Mise ha ribadito che bisogna aumentare la sicurezza nei cantieri, i controlli, le verifiche e le certificazioni di vario tipo. Qualcuno ha detto che bisogna finirla con ditte, specie in campo edilizio, che durano l’arco di un appalto, conquistato a colpi di preventivi ribassati. Stessa cosa accade nel mondo delle imprese, in particolare le tanto decantate piccole e medie imprese che tengono testa alle grandi multinazionali con il prodotto made in Italy (ma non solo) più venduto: lo sfruttamento, portato avanti con tagli selvaggi su tutto, a partire dai salari e dalla sicurezza. Si taglia tutto, fino a quando non si decide di delocalizzare. Passaggi tragici e strutturali di un’economia basata sul saccheggio dell’ambiente e della vita delle persone. In tutto questo, imprenditori e amministratori delegati, dirigenti a vari livelli e giocolieri della finanza, difficilmente vedono i loro salari tagliati, le loro sicurezze di vita e di lavoro messe in discussione, le loro stesse vite calpestate in quella che, a tutti gli effetti, si presenta come una vera e propria guerra di classe. Anzi, un massacro, perché da quest’altra parte, quella dei lavoratori, non c’è nessuna difesa, neanche una sua pallida espressione.

Il tragico conteggio dei morti sul lavoro non è altro che la punta di un iceberg formato dalle vittime della corsa forsennata al profitto. Per ogni morto sul lavoro registrato ce ne sono a decine e decine nascosti, negati, rubati. E migliaia di morti mancate – fortunatamente, anzi spesso fortunosamente – registrate all’interno delle centinaia di migliaia di infortuni. Su tutto domina poi la dimensione delle malattie professionali che si ripercuotono sulle famiglie e sulla società, sulla qualità della vita e sulla sua stessa durata. Se non vieni spazzato via dalla signora in nero, ci pensa il capo del personale di turno che ti licenzia perché hai fatto troppi giorni di malattia, o perché non riconosciuto più idoneo dal medico competente, o perché semplicemente, come uno straccio vecchio, non servi più. Leggi, contratti collettivi di lavoro, normativa di vario genere e anche relazioni personali a poco servono in tutto questo. Anzi, rischiano di avallare una lettura tutta ideologica di un lavoro inteso come dimensione liberale di vita, legata alle scelte e alle capacità (skill) individuali, alle competenze e alla preparazione personale (master, corsi sulla sicurezza, ecc.). Il rappresentante della sicurezza, presente solo in determinate situazioni lavorative può ben poco contro un modello di sviluppo che macina vite e salute. E questo, in condizioni “normali”, per non parlare del lavoro nero, altro iceberg dello sfruttamento, o del lavoro fatto di turni massacranti, tempi ridotti, turn-over negati, straordinari di ogni tipo e migliaia di ore lavorative non pagate. Sull’altro versante ci sono stipendi e premi di produzione che legittimano, e incentivano, la disumanità di una intera classe dirigente.

È stato pubblicato di recente un interessante lavoro dello storico francese Johann Chapoutot: “Nazismo e management”. Il testo parla in sostanza dell’ex-generale delle SS Reinhard Höhn, uscito indenne dalla denazificazione operata nel secondo dopoguerra, e fondatore di una scuola di management che ha tracciato le linee di comportamento di migliaia di dirigenti tedeschi e non solo. Le indicazioni, in sostanza, sono quelle in opera attualmente: c’è un obiettivo da raggiungere e l’importante è il risultato. In guerra rappresentava la vittoria militare e l’annientamento di nemici e oppositori, in economia significa la vittoria del profitto e l’annientamento … della classe lavoratrice. In tutto questo tanti possono essere i rilievi da fare. In primo luogo legati alla tragedia di Torino, ma anche a quella di Prato, o di qualsiasi altro posto che registra una vittima sul lavoro. Se l’ideologia imperante parla di mancati controlli o di errore umano, se la comunicazione mediatica risulta sempre più impermeabile a cifre e numeri che non riescono a far salire l’onda della rabbia e del rifiuto, se l’utopia operaia è ormai ridotta alla speranza di poter ritornare a casa la sera, perché in “paradiso” la classe operaia rischia di finirci ogni giorno della sua esistenza d’inferno, allora bisogna riaffermare la centralità di una lettura tutta ideologica del lavoro, ma nei termini propri e funzionali della classe lavoratrice che si traduce in quella che è la centralità politica di sempre: la questione sociale. La cultura della sicurezza è incompatibile con quella del profitto, e i tempi della produzione collidono con quelli di vita, individuale e collettiva. La sicurezza sul lavoro è determinata da orari ridotti, personale aumentato, strumentazioni adeguate e obiettivi incompatibili con l’arricchimento di pochi privilegiati.

Se fossero stati in sei a lavorare, a Torino, forse non sarebbero morti? Se a Prato non fosse stata rimossa la saracinesca di protezione, Luana sarebbe ancora viva? Se nei cantieri, nei campi, nelle corsie, in tutti i luoghi di lavoro gli esseri umani non fossero considerati come carne da profitto, qualcuno in più si potrebbe salvare? Forse sì! Ma il dramma dei morti sul lavoro, degli incidenti, delle malattie è qualcosa né contingente né individuale, ma è strettamente ideologico: il dominio dell’uomo sull’uomo, la gerarchia del profitto e del potere. Via Genova, a Torino, presto sarà liberata dalle lamiere contorte della gru che si è accartocciata su stessa. Difficilmente però saranno liberate le menti degli abitanti, dei torinesi e dei lavoratori dal lutto perenne che ogni giorno di più aumenta in un’onda, non necessariamente di rassegnazione.

Giordano Cotichelli

Qui il report del presidio tenutosi a Torino il 20 dicembre

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